Era distesa su un fianco. Come un lungo intervallo in uno spettacolo di luci, come una pausa interminabile tra le note di una sinfonia, stavo ad ascoltare il suo respiro tiepido e leggero. Erano le nove e mezzo del mattino e l’aria era ancora fresca. Sotto le lenzuola era semplicemente lei, senza nessun indumento. Castamente coperta, era l’immagine dolce e gentile che amavo di più. Piano il sole cominciava ad intiepidire la stanza, piccola, senza molti mobili, solo il letto un piccolo comodino ed uno specchio accanto all’armadio. Io ero seduto in terra con le spalle al muro, e lei dormiva ancora. Mi ero sfilato dal letto lentamente producendo solo un leggero fruscio nelle lenzuola. Indossavo ciò avevo lasciato la sera prima sull’anta del armadio socchiusa, una tuta, che adoperavo solo nelle giornate casalinghe, come quella domenica che mi aspettavo lenta e soleggiata. Mi piaceva guardarla mentre ancora i suoi pensieri erano chissà dove. Volava, il suo inconscio, nei sogni meravigliosi e terrificanti del pre-risveglio. Le campane suonavano.
Lei si mosse, dolcemente, mi vide e con un naturale gesto di femminile pudore tirò leggermente le lenzuola poco più su del seno, per coprirlo. Era uno spettacolo magnifico il risveglio. Mi affascinava. Avevo passato mattine intere ad aspettare che lei tornasse dal mondo in cui soleva giacere più di me.
“Da quanto sei lì a guardarmi?”
“Qualche minuto.” Le risposi sorridendo.
“Che ore sono?”
“Sono quasi le dieci.”
Lei si mosse, dolcemente, mi vide e con un naturale gesto di femminile pudore tirò leggermente le lenzuola poco più su del seno, per coprirlo. Era uno spettacolo magnifico il risveglio. Mi affascinava. Avevo passato mattine intere ad aspettare che lei tornasse dal mondo in cui soleva giacere più di me.
“Da quanto sei lì a guardarmi?”
“Qualche minuto.” Le risposi sorridendo.
“Che ore sono?”
“Sono quasi le dieci.”
Si scosò i capelli biondi con un gensto impercettibile. Frusciò ancora sotto le lenzuola, pelle di seta sul cotone. Il suo pallore lunare la poneva fuori dal canone, il suo viso spigoloso la rendeva dura, ma i suoi gesti morbidi la sublimavano in qualcosa di meccanicamente perfetto. Naturalmente lei portava il suo corpo, come uno scultore conduce lo scalpello, come io gestivo il pennello. Alzò le braccia e sbadigliò sfacciatamente con la bocca spalancata. Aveva quella sfacciataggine innata che forse ho visto addosso solo ad alcuni francesi. Si stropicciò gli occhi e mi chiese cosa volevo fare.
"Resta così, appoggia la testa sul cuscino, stringiti nel lenzuolo, e resta così. Per sempre."
La dipinsi per tutto il giorno.
"Credi che tutto questo abbia un senso?" Mi chiese guardando assonnata fuori dalla finestra.
"Ovviamente. Tutto ha un senso."
"L'arte ha un senso?"
"L'arte è il senso!"
Era ormai alto da qualche ora il sole in cielo. Non è che amassi molto il giorno, era così accecante, e rumoroso, era riservato all’umanità, al lavoro, agli autobus. Sembrava che i veri vampiri, gli alienati, i posseduti dal demone fossero svegli di giorno e riposassero di notte. Il giorno era un continuo andirivieni di morti viventi in giacca e cravatta. Mi distaccavo dalla consuetudine, dalla socialità, e per questo ero considerato un diverso, un eccentrico. Mi sentivo incompreso, benché i critici di mezzo mondo elogiassero le mie tele. Tanti giudizi da far vomitare. Mi infastidiva il giudizio altrui, nemmeno io mi giudicavo, per paura di togliere un senso alla vita che conducevo, o ad illudermi che ne avesse uno. La gente contestava il mio modo di parlare. Soporifero, contorto e poco comprensibile. E chi voleva essere compreso? Che si addormentino pure, per me erano solo degli indegni. Erano retorici come piangere a un funerale. La retorica e la banalità vanno così di pari passo che a volte è difficile separale entrambe dalla persona alla quale sono attaccate. Mi avvicinai alla tela vergine. La prima pennellata era eccitante, era la prima carezza sulla guancia, e appena posavo il pennello sulla tela, i miei occhi prima della mano coloravano l’intorno, mi era dato solo di seguire quella scia invisibile. Beatrice dormiva nel suo letto, io di rado dormivo e se lo facevo amavo stendermi a terra e scomodarmi per risvegliarmi prima. Il sonno mi terrorizzava, temevo di vivere il vero nell’inconscio dei miei sogni e di rimanere immobilizzato, al risveglio constatando che la realtà, forse, era un’altra. Stetti molto tempo ad accarezzare la tela con un rosso spento, di sangue coagulato. Dipingevo la mia anima, dipingevo la mia rabbia la mia ossessione. Dipingevo il sogno. Unico mio intento era l’estraniazione. Fuori dalla finestra una giornata normale, coi suoi raggi di sole e le poche nuvole in cielo, poche macchine in giro e tanti passanti, rumori di città. Nella mia casa vivevo male, ero prigioniero delle mura affittate. Facevo in modo di non avere un tempo, uno spazio, facevo in modo di concepire le mie contraddizioni. Contraddirmi era ciò che mi stimolava di più, e quando nelle conferenze, nei dibattiti, nei miei scontri con la società del culturale, mi scontravo con critici che mi sbeffeggiavano esponendo ciò che avevo detto, o ciò che avevo dipinto, che entrava in continua contraddizione con quello che ero, e con quello che dimostravo. Il dimostrare, mi sembrava una banale impressione che gli altri avevano di me. Se si riuscisse ad astrarre l’arte dal dimostrativo, dall’intrattenimento, dalla comunicazione, allora l’arte sarebbe quello per cui è nata, semplicemente puro elemento fine a se stesso, figlia di se stessa. L’arte copula con se stessa per rigenerarsi.
"Hai finito?" Mi chiese con curiosità, con un certo sorriso malizioso e malinconico.
"Ho appena iniziato."