giovedì 31 marzo 2011

forza e quiete

la realtà è una e sola e tutte le verità
ogni oggetto è una parte del tutto
capisci
durante lo stato meditativo
non c'è barriera tra il corpo e il tutto
tra il tutto e il corpo
il solo distacco che va perpetrato
è quello dal pensiero privo di azione
il pensiero fine a se stesso è una nuvola che copre il sole
se scegli di essere nuvola
fai piovere

lunedì 28 marzo 2011

nel deserto... tre oasi

carico orologi che neanche si muovono...
domani si prevede pioggia, e non so
cosa sta accadendo a questa vita
un'emozione! un'emozione!
esclamazione di passione!
migrazioni sul mio corpo queste mani su di me
queste tue carezze simili ad assurdità
pervadono lo spirito, scuotono l'essenza...

carico orologi che nemmeno camminano...
spengo luci dicendo frasi asciutte,
parlo poco e dimentico chi muore...
lo sento che la vita si disgrega.
amo le mie persone disperatamente
lascio vivere la mia vita ai sentimenti
un'emozione! un'emozione!
un'eterna transizione!
sincerità verità e mestizia
questa tosse in questa gola...
non respiro e voglio fumare.
voglio fumare un'altra sigaretta
per mia gola ristretta
voglio strozzarmi di fumo

le tue mani, mi fanno scordare chi sono...
sai usarmi ed appagarmi,
sai usarmi e molestarmi.
non ti è dedicata questa follia!
non è certo per la gioia che spreco l'agonia
è il trucco del poeta
mette l'arte davanti a dir quello che soffre
ad oscurar facce malvagie che di virtù lo svuotano

ti sogno e non hai volto
la tua freschezza donna
mi appare in tre forme differenti:
sei l'amica, sei l'amante, sei la femmina.

non è dedicata a voi questa gioia solitaria.
è roba del poeta, non è vera è immaginaria.
è finzione, è turbamento, perversione del tormento.

non è dedicata ad altre, è sputare la mia vita
sputarla lì per terra come fosse già finita!

come darla in pasto ai lupi, nella tundra solitaria,
quando l'ultimo predone l'avrà presa per robaccia,
e per quattro soldi stronzi l'ha venduta ad un viandante,
che con aria sufficiente se l'è messa per mantello,
e la porta a spasso zoppo neanche fosse il suo fardello.

domenica 27 marzo 2011

rabadam-bam-bam-bam-rabadabadabadam!

tamburi!
ba-bam-bam-BAM!
e poi,
rikitichetaketeketakerikitakete!
un passo qui, un passo là.
trabam-bam-BAM!
e ancora.
traketeketaketeketaketeke-TUM!
TUM!
TUM!
TU-TURUTUM-TUM-TUM!
e ballare, roteare.
zan zan, zan zan...
e girare, saltare, manifestare!
insieme,
andare,
camminare,
fotografare.
parlare,
sorridere,
giocare,
trovare.
incontrare,
gioire,
stupirsi,
alè,
triketeketaketeketiketraketà!
BA-BAM-BAM-BAAAM!
trrrrrrrrrrrrrrrrrrr-badabam!
che felicità!
nella pancia la gran cassa,
nelle braccia un po' il rullante,
gambe prese a passeggiare,
con il tempo della banda.
con il tempo della banda,
gambe stanche ma non troppo,
faccio avanti e indietro e incontro,
un'altra banda che mi fa:
tra-kun-kun-tà!
tra-kun.
tra-kun.
taratatan-trakatan-trakatan!
che felicità!

sabato 26 marzo 2011

realtà

e vieni a cercarmi così.
come uno tra i tanti.
io sono eccellenza,
visione lontana.
centellinare, è il codice appreso,
e di convinzione son fermo.
ardere sì, ma con contegno
e delicato mutamento.
non sono più folle,
coi piedi sul mondo,
che questo dannato pianeta
è più importante di un amore fecondo.
la rabbia è sopita,
il lupo ha ululato,
non c'è più dolore
ma un canto al cielo liberato.
trovami empio di ansie recondite,
scoprimi libero da frasi impostate.
il silenzio è il modo migliore
per manifestare gioie impensate.

venerdì 25 marzo 2011

un mattino pieno di sole e di speranza

prima vera primavera.
sbocciano i fiori
suonano gli stranglers,
piego giornate,
ho mal di testa,
dormo scomposto,
alzo il volume,
fuori lampeggiano riflessi di luce.
se mi ammalio mi ammalo
e non faccio altro.
sbaglio appuntamenti
trovo un prato col sole
mi siedo e medito
mi siedo con gli spiriti,
e loro sì che mi avvolgono.

mercoledì 23 marzo 2011

La storia di leonetto e del tronchetto

Leonetto era un commerciante di piante e fiori, un commerciante equo ed amorevole con le sue merci. Disponeva sugli scaffali della sua bottega ogni tipo di pianta e fiore del mondo, aveva gli iris del mar nero, le begonie antartiche, gladioli giapponesi, gerani marini, ogni tipo di margherita, ne aveva una varietà che cresceva tra i muschi e il licheni della tundra siberiana, grandi come un granello di sabbia. Formavano dei piccoli cieli stellati nel verde dei manti muschiosi. Leonetto viveva in pace coi suoi fiori e le sue piante. L'orgoglio della sua vita era un tronchetto della felicità. Munito di fronde possenti e verdi e puntute. Un fusto robusto e sano, due braccia e due gambe nodose e lente, che muoveva lentamente, al ritmo di stagioni millenarie. Gli occhi del tronchetto erano piegati ai lati, come quelli di un vecchio saggio pieno di sapere, la sua bocca un'ulcera nella corteccia che sbavava di tanto in tanto una bavetta resinosa. Un vecchio albero, che Leonetto aveva ormai adottato come mentore, gli chiedeva consigli, gli porgeva domande, gli recava doni. Un giorno uno squalo pieno di denti e pieno di denaro entrò nel negozio con tante intenzioni clamorose. Chiese subito a Leonetto quanto costasse quel meravglioso alberello. Leonetto secco e deciso ammise che quel tronchetto non era in vendita. L'uomo pieno di sorrisi e di banconote diede subito in escandescenze: come era mai possibile che esistesse una cosa che il suo molto, molto, moltissimo, troppo, tracotante, esuberante portafoglio pieno di denaro non potesse acquistare? Leonetto con fare gentile e deliziosamente pacato fece capire al ricco avventore che il denaro non può acquistare ciò che non è in vendita. Il ricco squaloide fece un inchino di disgusto e indietreggiando senza mai dare le spalle a Leonetto andò via, giurando che sarebbe tornato, per vedere se Leonetto cambiasse idea. Passarono due stagioni. Il tronchetto continuava a crescere e a vivere rigoglioso sotto le attenzioni del buon Leonetto che amorevole continuava ad accudirlo come un figlio. Molta gente però non comprava più piante, e così arrivò a fine anno con le tasche vuote e peggio ancora con la pancia vuota. Una mattina di novembre, mentre la neve cadeva copiosa nel suo giardino, lo squalotto rampante gli fece di nuovo visita, stavolta aveva un bel paio di occhiali da sole, e una pinna nuova, d'oro massiccio. Stavolta il pescecane finanziario si offrì di pagare tanto oro quanto pesava la pianta, e il tronchetto di Leonetto era ben pesante, aveva un fusto che da solo pesava più di Leonetto stesso. Anche se era metereopatico e aveva la cassa e la pancia vuota, Leonetto decise di non dare via il suo tronchetto adorato, poiché ribadì, ciò che non è in vendita non lo si può comprare. Passarono due anni. La serra di Leonetto che una volta era rigogliosa e conosciuta era ormai non più che una bettola in rovina con uno spaccio di semi per ortaggi e poche piantine di insalata. Niente più fiori, niente più rami germoglianti di gemme strabilianti e colorate, niente più arbusti odorosi dove tripudi di insetti ronzavano ad ali spiegate per impollinare qui e lì come uomini liberi il sabato sera. L'unica cosa che rimaneva rigogliosa e bellissima, e l'unica alla quale non smetteva di recare delle attenzioni più che particolari era sempre, manco a dirlo, il suo tronchetto meraviglioso. Proprio in quel giorno di febbraio, quando erano giorni che non si vedeva un cliente, lo squaloide perfido e smaliziato fece il suo ingresso per la terza volta. Il suo sorriso, sempre lo stesso, il suo portafogli sempre più gonfio e la sua pinna sempre più lucente di oro e gioielli incastonati. Mostrò tutti i suoi denti il pescecane e sibilando con una nuova tecnica infuse il dubbio della morte precoce per lui e per il suo tronchetto, al povero Leonetto. Se fosse morto di stenti e patimenti, chi avrebbe pensato a curare quel bell'esemplare di pianta. Unico, inimitabile, antropomorfo tronchetto della felicità? Gli propose, in cambio della pianta tanto agognata, di ricoprirlo d'oro, di denaro e di proprietà. Grazie a quell'affare avrebbe potuto vivere come un imperatore per il resto della sua vita. Leonetto, con gli occhi e il cuore pieni di gelo, la fame nella pancia e le ginocchia spezzate dalla vecchiaia, ebbe un attimo di titubanza: “se muoio, e questo avverrà di sicuro, il mio adorato tronchetto perirà subito dopo di me, e io non potrò più aiutarlo.” si avvicinò al tronchetto che per empatia aveva assunto una forma triste e curva su se stesso, e gli disse: “tu sei destinato a divenire una pianta millenaria, e del tuo destino saranno responsabili certamente moltitudini di uomini, e per normale corso delle cose, gli uomini saranno i più diversi e i più disparati. Quindi chi ti vuole con tanto ardore, vuoi per un avido capriccio, o per una passione infinita, forse ti merita quando il tramonto della mia vita sta per verificarsi.”
A queste parole Il tronchetto abbassò le fronde in segno di rispetto e riconoscenza. Leonetto acconsentì alla trattativa, e decise di passare in tranquillità i suoi giorni, coperto di ricchezze.
Qualche giorno dopo la compravendita, Leonetto era nella sua casa, tutta nuova e ristrutturata, con un giardino ampio, dove però era sempre presente un vuoto incolmabile. Passava delle giornate felici, sempre indaffarato a curare ogni tipo di pianta che teneva nel suo eden personale, e anche la sua salute migliorò, non più costretto a stare tutto il giorno in una serra piena di spifferi pericolosi per la sua artrite. Dopo qualche mese, il vuoto che il tronchetto aveva lasciato nella sua vita e nel suo giardino andava sempre più affievolendosi, rimanendo però forte in lui, un grande senso di riconoscenza verso quella pianta che col suo silenzio gli aveva insegnato più di qualsiasi altro maestro. Decise perciò mosso da una più pacata nostalgia di contattare lo straricco squaloide per sapere se poteva vedere il suo bel tronchetto. Al telefono lo squaloide si presentò altamente affabile e comprensivo, e acconsentì con gioia l'incontro. Anche se inizialmente diffidente, Leonetto, aveva forse mal giudicato quell'uomo, solo per il suo aspetto pretenzioso e pieno di sé.
La casa del signor squalo era la meraviglia delle meraviglie. Una tenuta che racchiudeva in essa ogni stile architettonico, un giardino con mille statue d'ogni corrente artistica, e una serra con la più grande varietà di piante fiori e specie della flora conosciute e sconosciute. Di passione dunque si rivestiva il suo morboso interesse e non di avidità. Al centro della serra, che era una magnifica cupola di vetro, su una collinetta spiccava in tutto il suo rigoglioso splendore il tronchetto. Lo squaloide invitò Leonetto ad avvicinarsi per ammirarlo meglio, ma Leonetto, mosso da una sorta di pudore e una strana morsa agli arti che avrebbe col senno di poi definito una sottile invidia, rifiutò di avvicinarsi troppo alla pianta. Come un innamorato che ha lasciato il suo amore, e poi lo vede felice nelle braccia di un altro, Leonetto soffriva maledettamente. Tornato alla sua casa bellissima, si inginocchiò tra le begonie siberiane e cominciò a piangere di un pianto astioso e incontrollabile. Avrebbe forse preferito che la sua pianta adorata, il suo mentore clorofilliano destinato a durare mille anni, nelle grinfie deliziose della ricchezza di uno squalo avesse preferito avvizzire, più che crescere rigogliosamente e sempiterno?
La begonia lo avvolse, le sue spire lo cinsero per tutto il corpo e Leonetto passò una notte intera nel suo abbraccio. La mattina seguente si svegliò, e la sua pelle divenne più elastica, più verde, e più giovane. Prese l'abitudine di dormire con le sue adorate piante ogni notte, per far appassire il dolore che come un'erba maligna era germogliata nella sua anima, tornando così più giovane e più elastico. Leonetto era un tutt'uno con il regno vegetale. Era fauna e flora allo stesso istante, e si rese conto che dalle sue mani iniziavano a nascere dei piccoli germogli. Piccoli germogli dietro le orecchie, e tra i capelli, e sotto i piedi, delle escrescenze cercavano di insinuarsi nel terreno. Ogni mattina al risveglio era sempre più difficile cercare di estirparsi dalla terra. Ogni giorno gli era difficile comprendere quanto tempo fosse trascorso tra un assopimento e il suo risveglio.
Decise così di recarsi di nuovo a casa dello squaloide, ma dopo tanto tempo che lui ringiovaniva, il mondo intorno a se era cambiato, era andato avanti, di molti e molti anni, e quando si trovò a bussare al cancello della tenuta del ricco pinnato trovò un cancello arrugginito pieno di buchi e in evidente stato di abbandono. Come tutto il resto d'altronde, abbandonato, spoglio, avvizzito, cadente. La cupola magnifica della serra era ormai un recinto di vetro senza più un tetto, e a ridosso della collinetta del suo adorato tronchetto v'era ormai un ceppo secco senza fogliame. Leonetto pianse lacrime verdi di tristezza, si abbracciò poi al tronco e lì si addormentò. Al suo risveglio si accorse che le sue mani erano completamente ramificate attorno al ceppo secco, e i suoi piedi avevano affondato le radici così in profondità che gli era praticamente impossibile tentare di estirparle. Una pioggia sottile gli scivolò giù tra le fronde che aveva in testa, e goccia a goccia, beveva l'acqua che scendeva dal cielo. Leonetto dopo la pioggierella fine si riaddormentò. Al suo risveglio notò che dal tronco secco, che ormai era appendice del suo corpo e viceversa, germogliavano delle piccole gemme verdi, e alcuni ciuffi di foglie facevano capolino dai nodi rinseccoliti. Gli insetti nidificavano su di lui, e gli uccelli si posavano festosi al cantar della primavera. Il sole lo cuoceva benevolo, mentre la pioggia leniva ogni suo pensiero negativo. Leonetto dormiva, e ogni sonno in cui cadeva era un sonno sempre più profondo e lungo. Talvolta tra un sonno e un risveglio passavano decenni, finché un giorno Leonetto decise di non risvegliarsi mai più.

non è dolore - il secondo trucco

punture di vespe nella pancia,
disgustosi momenti solitari,
masturbazioni meccaniche,
orme di melma sul petto.
voglia di disarticolarmi,
voglia di dolore fisico,
desiderio violento di eviscerarmi,
pattinare lame sulla carne,
prelevare il piacere di una
banale penetrazione e sputarci
sopra.
assaporare sperma caldo e
fluidi vaginali, poi disgustarmi
e vomitare.
voglia di essere cattivo,
di leccarti ed azzannare.
non c'è redenzione oggi per me,
non c'è scampo per il vile.
abnegazione verso il piacere,
per scampare a normali responsabilità,
inondarmi di passione per dimenticare il dovere.
quanto stupido piacere mi sono
concesso. senza merito o
soddisfazione. ora fare il
necessario è la roccia del sisifo che sono,
consapevole,
felice come deve essere sisifo.
con questi presupposti dittatoriali
che riempiono di merda
questa società emorroidale.
l'unica cosa che posso fare
per sorridere,
è spegnere il pc ed accendere
i talking heads.

il trucco

non è vero.
il poeta non è vero.
è finzione.
è montatura.
è l'arte camuffata da paura.
è monnezza,
carta straccia.
sta poesia è na mano n'faccia!
fa rime da bambino,
senza fede nè destino.
sta rima è na sciagura,
e il danno è che perdura.
col suo fare a filastrocca,
lascia un po' d'amaro in bocca.

d'ali magnetiche vibro,
al sole dell'estate.
come antenne fameliche capto
le follie conquistate.

sta rima sciocca è senza senso,
fa fare giri col cielo terso,
dà solo un senso a dispiaceri,
quando ti trovi bandito e perso.

tra gioia e tormento,
preferisco gioire
ed al tramonto,
quando il sole scappa,
strapparmi un sorriso e pensare
ai miei colori:
all'arancione.
al nero,
all'azzurro,

che visti da fuori,
sono anche storie,
musiche,
immagini,
odori!

parole,
parole,
quante parole...

MA SI!
diamoci ancora dell'odio...

sparpagliamo quel viscido sperma annerito.
conquistiamo le foreste,
devastiamo le radici d'altri dei.
calpestiamo il mare e l'acqua.
ignoriamone il flusso.

sbraniamo la terra con feroci zanne marce.
si sgretoleranno ad addentare pietra dura,
quando questo pianeta rivendicherà la sua natura.

a quale dio vi voterete a bestemmiare,
con l'illusione di potervi salvare?
strati di granito, su questa folle gente,
strati di granito, per concimar la terra
con la feccia che da noi si chiama merda.

ah che poeta assai scurrile.
violenta il cielo e il mare,
solo per farvi impressionare.
è questo il trucco:
il poterlo inventare!
poterlo dire,
senza nulla poi mentire,
senza poi abbagliare il sole
con inutili parole.

e il poeta è questo e basta,
un idiota nella massa
che felice e ignaro osserva.

Quando arriva il maggio,
fa lo scemo del villaggio,
e vivacchia la sua vita piena e torva.

Contemplare il cielo e il mare
l'han portato a naufragare
sopra scogli acuminati!
Mentre nelle alte scogliere,
vivono le famigliole,
le lucine di natale,
il tacchino,
il capitone,
pasqua, tombola e torrone!
vive l'alta borghesia,
che il denaro spazza via,
viva viva la borghesia,
che tutti gli uomini si porta via!
viva viva la borghesia,
ci ridà la retta via!

e il poeta invece è sfranto,
con le ossa doloranti,
a imprecare i molti santi,
delle feste dei cantanti,
suonatori, cantastorie,
venditori di fandonie,
spudorati uomini gufo,
che van matti pel tartufo,
soddisfatti in ville morte,
piene di legnami e porte,
ricche di petròli vari,
coi trofei dei bei safari.

il poeta guarda e ride.
guarda e ride allegramente,
mentre muore a quarant'anni,
MAI passati banalmente.

che dilemma che ha l'artista.
di parole ha fatto il pieno,
ora tacito e sincero,
s'appropinqua al suo silenzio.

Che poetico sproloquio
il fraseggio del poetaccio!
Il suo drastico messaggio
arriva troppo e non arriva.
destinato ad uno solo e
perso fra duecentomila.

martedì 22 marzo 2011

giornata nera

è come il gelo.
è lama sottile.
allungo le dita,
e niente di nuovo.

trema la terra.
scoppia la guerra.
e qui in italia,
oggi sembra ieri.

l'ipocrisia.
la grande ignoranza.
le file alle casse.
la loro arroganza.

continuo, non smetto!
di essere buono,
di avere premura.
scaccio i demoni della paura...

primavera che arrivi,
mi trovi di nuovo
col cuore coperto
da un panno.

il mattino assonnato
sfocia in giornate di tedio.
nella testa dell'artista
di pensieri c'è un assedio

rabbia, fulmini e vendetta!
comprensione, adattamento!
questo "fare" della gente
ne amplifica il tormento.

da quattr'anni che ricevo
sto feroce trattamento.
d'essé preso e poi buttato
tutto rotto e masticato.

dov'è l'errore, DOVE?
m'impazzisco per capire
che una sola negazione
riempia il mondo di rovine!

ritornare alla realtà,
ricordare verità,
non scordare i piedi a terra.
nel poeta pure è guerra!

domenica 20 marzo 2011

reset

è altro....

non è questo lavoro, è un altro...
non è questa casa, è un'altra...
non sono queste persone, sono altre...
non è questa verità, è un'altra...
è altro quello che ci salverà...
ma la direzione e il coraggio?
dov'è che sono?

mi voglio resettare...

sabato 19 marzo 2011

giocare, giocare, giocare di parole....

lla "a" che tanto per cominciare,
precede sempre "me", per dire che
"io" lo uso sempre, a descriver come sto.
"e" congiunzione non va mai dopo la virgola,
e io la metto sempre.

i miei amici sono apostrofi.
e ciuffano, e sfiluccano e sparnazzano.
l'artista vuol giocare,
e di parole nuove vuol rimare,
e ridere beato, col sole a contemplare.

punteggiatura è sempre l'unica nemica mia.
metto punti e virgole come mi frulla.
MI ESCLAMO! quando devo interrogarmi....
un punto e virgola che mi sta stretto,
lo cerco, ma non lo vedo da un pezzo!

a capo poi ci vado troppo spesso,
il punto a capo poi, bhè, me lo impongo,
poi col backspace indietro torno,
e allungo il mio periodo di un verso,
che in quattro frasi muore l'universo.

e se la vita fosse un tappeto di parole?
e ad arrampicarci sulle "F" e sulle "S"
si potesse scivolare e farsi male?
l'artista si arrovella poi si prende un po' per fesso,
che si ritrova sempre un po' malmesso.

ma gioca, gioca, gioca, come il bimbo gioca,
e guarda e tocca e chiede e nulla lo perplime,
si ammalia con la luna sorridente in mezzo ai pini,
riceve segni astrali dai suoi spiriti affini,
e dentro questo gioco lascia spazio alle sue mani.

dipinge sogni astratti ed incubi reali,
cade in filastrocche per spiegare la sua vita,
e non ci vuole stare a pensar che sia finita,
quella storia folle ch'è scappata tra le dita,
che rima scema questa, servita e riverita.

ma ecco bianca e nera luce.. come al cinematografo
appoggio le mani sotto il mento.
dimentico per un'ora il mio flaccido tormento,
dimentico la noia, imparo distrazioni,
il poeta salta fuori con le sue umili astrazioni.

e conto poi si rende, a scriver cose matte,
giocare con i tempi, i verbi e la sintassi,
inventa neologismi come fosco maraini,
ed ecco il paragone, la megalomania,
e un punto io ci metto e così sia.

venerdì 18 marzo 2011

inutile

inutile....
inutile....
inutile....

questo dolore che provo è inutile....
non mi da nessun senso....
mi toglie il respiro....
eppure lo spirito ne resta contento....
ma lascia l'odore di fallimento....

inutile....
inutile....
inutile....

questo trasporto....
amare un'idea senza corpo....
fottermi l'anima, allargata in sorrisi....
e sbatterla in terra senza troppi rimorsi....

inutile....
inutile....
inutile....

questo corpo che porto a strascico....
lo trascino nei giorni a venire....
assetato di voglie, passioni, senza paure, senza freni senza traiettorie....

inutile....
inutile....
inutile....

questo silenzio che lacera il corpo....
vorrei domarmi ma nella pancia io sento una fame....
che nessun piatto caldo potrà ristorare....
che nessuna pietanza potrà mai sfamarmi....
e sfianco le notti a ubriacarmi per riuscire a dormire....
e spacco la testa sul muro....
incredulo....
e torno di nuovo a sentirmi....

inutile....
inutile....
inutile....

carnevale

che folla...
in questa folla tutto accade.
ci si perde in una folla così...
pirati e uomini senza volto...
un'orchestra senza musica...
un valzer immaginato...
un fiume di gente che si tiene le mani vagando
dimenticandosi il luogo ed il tempo.

ballarsi...
trovarsi...

vorticosamente, girare!
scivolare le dita sopra le altre,
sentire il sapore con gli occhi socchiusi,
aprirli e scoprirmi a guardarli...
poi... perdermi dentro l'abisso!

...ma che occhi hai...

cercare, fuggire,
sfuggirti, trovarti,
e continuare a meravigliarmi.
la pioggia!

e poi...
di nuovo da solo.

riscendere verso il paese,
l'ombrello appoggiato alla spalla,
tutti che salgono alla vita di sempre.
riscendere lì nella piazza,
dove con poca luce in più,
ancora danzavo sul bel danubio blu.

al terminare dei passi,
fuochi artificali ad accogliermi.
luci nel cielo e nel corpo,
vedere che tutti, da quel momento
al primo colpo, smisero di migrare.
sguardo nel cielo che ventoso
sparpagliava coriandoli accesi.

non un filo di stupore in me.
quei fuochi là in alto, facevano luce!
ma dentro...
se avessi infilato le dita nel petto
ad aprirmi il corpo del tutto,
avrei fatto giorno.

giovedì 17 marzo 2011

furor eget

un grido!
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAH
sono qui!
quanto mi piace gridare!

guidare...
eperdermiaportuensepercercare
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAH
altro grido altra corsa.

quanto è sano lasciarsi andare.......
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAH
non me lo dire ti prego no!
non lo dire!

e poi scorrere, schivare, ho voglia di inventare,
io voglio voglio voglioooooooo
voglio continuare a gridare

AAAAAAAAAAAAAAAAAAAH
questa notte me la voglio mangiare!
la voglio digerire, smaltire, assimilare...

becchi di rapaci incrinati,
cercano di scavare la mia carcassa.
dolgono!

dementia dove sei? ritorna!
augusta arte mia, sgorga!
che io sola t'amo ed ogni musa, resta invidiosa

mercoledì 16 marzo 2011

fiumi di pioggia

una bottiglia esaurita...
tabacco...
e quel sapore di notte, che tutto mistifica e tutto accarezza.
piove una pioggia violenta.
resto rapito da tutta la forza che questa natura ci mette.
la terra fatta con ere, per formarsi e plasmarsi,
si rende magnifica così com'è...
e chissà quanta pazienza per renderla ancora più bella.
la pazienza di madre terra...
quanto c'è da imparare, senza frenesia...
in questo tempo di corsa...

alla notte di indomite passioni...
alle tue fughe...
alla cautela, nella terrificante paura di ritrovarmi nelle mie orme.
allo specchio,
alle parole che si aggrappano a quest'anima,
e restano penzolanti come un vessillo di gioia.

a queste favole, che sappiamo raccontarci per sorridere,
ai pensieri che non riescono a deviare,
a questo fumo di sigarette riaccese che mi fanno tossire,
in silenzio...

questa pioggia, che non cessa, che reca disagi nell'etere,
che non fa scorrere i pensieri...
questa pioggia che vorrei uscire in strada e bagnarmi e bere,
e correre senza prendere fiato e svenire sull'asfalto bagnato,
a rendermi partecipe di una pozzanghera grigia,
ad assaporare quel catrame.

a quel sole, che domani brucerà sereno il mio viso,
a queste spalle, pesanti dei dolori di ieri,
a queste mani, che non sanno più cosa accarezzare,
dopo aver assaporato la tua pelle.

martedì 15 marzo 2011

agli spiriti

accogliete, oh spiriti,
questa preghiera di devozione
a voi guardiani della madre terra.
proteggete questo mondo dalle
insidie della follia dell'uomo.
instillate giudizio e rispetto nelle menti,
colorate di cielo e di mare le azioni
di scellerati empi esseri di questa esistenza,
che ubriachi del loro intelletto
si illudono padroni di qualcosa che
è ingovernabile.
fuoco, acqua, terra e vento,
siate gli unici guardiani,
fulmine, terremoto e tempesta,
siate clementi,
vulcani, oceani, stelle,
che la vostra grandezza sia monito,
uomo, spirito dell'uomo, che conduci
su sentieri ambivalenti la scoperta della ragione,
abbassati al livello che ti compete,
non eccedere nella crudeltà,
non abbandonarti alla menzogna,
piegati alla verità,
piegati, e prostrati a venerarla,
che sola lei unica è la via,
solo lei unica è la direzione,
e della verità bagnarsi
è come pulire l'anima da ogni ingiuria,
da ogni turbamento,
da ogni lascivo dubbio che dona a noi
il folle e bieco tormento.
spiriti della terra,
guidate la nostra esistenza,
verso l'andamento coerente col tutto.

giovedì 10 marzo 2011

ma quale artista...

artista...
mi chiamano artista e io mi sento niente.
io scherzo. non chiamatemi artista, io sono un giocattolo nelle mani del caso.
artista.
che fa.
ma io poi faccio quello che mi va.
e l'etichetta dell'arte io non ce la faccio a portarla no no.
io gioco, con tutto.
e gioco all'amore, mi piace.
quello è il gioco che mi piace di più.
artista io, artista tu. dell'arte d'amarsi, senza domande.
continuare a giocare, a cercarsi, a nascondersi.
e ancora io rido.
e parlo anche troppo di me.

vorrei dedicare cento parole alla terra.
mille parole alla gente.
milioni di verbi alla vita.

aho, ma ve volete svejà?
la giustizia se n'è annata!
è sparita!
ce comandano quattro zozzoni che so sempre li stessi!
dai tempi della pietra!
l'omo ha detto questo è mio e ha rovinato tutto.
poi l'omo, che stronzo! ha detto pure sta donna è mia!
e ha generato la linea più nera!
la linea idiota della gelosia!
che è la gelosia che è contro natura, no l'omosessualità!
ma che ne sapete voi omini occidentali, dei mali della vita dell'artista!
che vuole amare tutti! tutti indistintamente, omini donne e animali!
e no in quel modo zozzo de culi nudi e scopatazze senza senso!
l'amore quello vero!
quello che manco andrebbe chiamato più pè nome!

basta io parto! me ne vado.
me guadagno da vive col vento e col sole.
e se moro domani,
farò contente n'sacco de persone!

martedì 8 marzo 2011

fuoco e delirio alle prime ore del mattino

dovrei portarmi dal meccanico dell'anima.
il meccanico dell'anima è un uomo semplice e baffuto,
con uno sguardo sincero e la faccia sorridente,
ma non troppo.
ha degli attrezzi speciali:
la chiave inglese per i cuori solitari,
le tenaglie per estirpare spine dai fianchi,
calamite per eliminare cerchi di pensieri alla testa.

il meccanico dell'anima ha un lubrificante speciale
per far ripartire le rotelle
che si sono incastrate,
il più delle volte
se si inceppa nel cervello
qualche brandello
di un amore monello
che è sparito sul più bello.

mi devo portare dal meccanico dell'anima
perché ho i polmoni pieni di parole, parole, parole...
devo avere qualche cosa di distorto
nel meccanismo dell'azione,
poiché alla mole di parole che produco,
non rispondono le dovute mosse.

...vorrei stare lì...tra le tue braccia...

il meccanico dell'anima,
mi deve un favore,
mi aveva accomodato,
il tagliando aveva fatto,
mi aveva detto: "con questa riparazione
ci fai di chilometri un milione!"

sono passati si e no seicento metri
e qua non rifunziona già più un cazzo!
ma forse sono io che st'anima non so come portarla,
chissà se ci sta dell'anima pure l'autoscuola?
dove ti insegnano a guidarla.

mi boccerebbero per eccesso di velocità...
porto l'anima a velocità così estreme che dopo un po' mi ferma la stradale, e me dice:
"giovinotto, senta un po'... qui facciamo la multa e ritiriamo la patente!"

AGENTE! ma che ce posso fà?
io vivo così... a capofitto,
quanno che sento, sento forte,
e quando dò... dò tutto!
che poi li sotterfugi de magheggi e scappatelle,
non m'hanno mai donato un briciolo de serenità..

me confido e me dicheno, ma godite l'affare sì che è stato!
già a vivelo sei stato fortunato!
ma certo! j'arisponno, fortunato me ce sento...
ma poi possibbile mai che le cose
me devono procede sempre a stento?

a trovalla, na situazione
de du persone che s'entendeno,
che a guardasse drento all'occhi
quasi svengheno!

e ritrovasse ner pugno stretto
soltanto n'pò de gnente
co n'cucchiarino de zucchero drento.
tanto pè nun portà er ricordo amaro,
che l'amaro, manco c'è mai stato.
sortanto er respiro j'è mancato,
a sta cosa strana ch'è successa,
e che poi manco m'a sò persa,

stà lì,
piegata come na coperta.
è che me piacerebbe da tiralla fori quanno che rifresca,
quanno sento er bisogno d'ariscallà l'anima funesta.

lunedì 7 marzo 2011

l'arte della meditazione

l'allievo andò dal maestro, e disse: "maestro, tutte le volte che cerco di illuminarmi, tutte le volte che cerco di raggiungere il sentiero, e di intraprenderlo, sono distolto continuamente dall'oscurità e da altre strade ricche di indecisione."
il maestro rispose: "non c'è nessun sentiero"

lupo zen

domenica 6 marzo 2011

- silenzio, una buona volta -

ci sono notti nelle quali non dovrei scrivere.
ci sono momenti nei quali dovrei solo raccogliermi in meditazione,
senza avere l'arroganza o la presunzione di dover comunicare.
questa smania connettiva, questa voglia di esporre, di dire.
vorrei un blackout dei sistemi informatici,
vorrei un collasso delle linee telefoniche.
all'età della lettera, all'età della pazienza, che questa smania connettiva,
ci porta ad essere tutto e il contrario di tutto.
a dichiararci con velocità subito seguaci di un link.
se mi cerco l'interruttore non lo trovo, se mi cerco un relé,
se volessi una spina da staccare, soffrirei.
l'unica cosa che dovrei, senza auspicare il collasso,
sarebbe semplicemente...
tacere, finalmente!

sabato 5 marzo 2011

grida e rumori di ferraglie alla stazione del dubbio

ero seduto alla stazione del dubbio, c'erano navi e carrozze e treni supersonici che partivano verso il paese delle certezze. io non avevo ancora il biglietto. una signora con gli occhi di vetro mi chiese una mano per il suo bagaglio, leggerissimo. aveva un cappello di seta ed era vestita tutta di nero. mi ricordavo di aver visto una donna con il volto da anatra, in uno dei miei viaggi, la donna anatra era simpatica, e mi regalò un paio di guanti di velluto. era la donna con gli occhi di vetro stavolta che mi regalò un indumento, un paio di calze di lana. avevo trovato una panchina in ferro battuto, freddissima al primo impatto, con quel freddo che faceva tutto era ghiacciato. alla stazione del dubbio tutto è congelato, e difficilmente si scalda. solo i più tenaci riescono a non produrre più vapore dalla bocca. passò un bambino con le rotelle, lui non aveva bisogno del biglietto, aveva avuto la brillante idea di mettersi dietro ad un treno e sfruttare le sue rotelle sui binari per viaggiare veloce verso la certezza. era un ragazzo scaltro, avrebbe fatto strada. io invece, senza biglietto e senza meta, stringevo la mia sciarpa al collo e mi immaginavo da quale porta sarebbe arrivata. non avevo voglia di partire senza vederla un un'ultima volta, non avrei mai voluto prendere il veicolo verso la certezza senza pensare di poterlo dividere con lei. ma lei non arrivava. c'era un gatto che miagolava forte, ed aveva ai piedi delle catene nere di metallo sottile, faceva un incessante rumore di ferraglia, e continuava a miagolare. i passanti gli buttavano pezzi di cibo, ma lui restava magro, con la faccia sconsolata, e dimenava la mandibola come se gli fosse rimasto qualcosa nella gola. Mi avvicinai per aiutarlo, ma quello mi soffia e mi graffia la mano. copiosamente il sangue scende, istintivamente porto la mano alla bocca. mi sento toccare una spalla, mi giro ed è lei, che mi chiede: "è dolce?"
in quell'istante un grido spezzò ogni cosa. un grido esplose da chissà dove per chissà dove. le vetrate della stazione del dubbio si polverizzarono in centinaia di pulviscoli colorati, le travi di sostegno si ruppero, e tutto crollò irrimediabilmente. mi ricordo i nostri occhi, in quel fragore violento non si distolsero per un momento. tutti i treni e le carrozze e le navi e gli aerei verso la terra delle certezze erano salpati, e tu ed io, lì fermi a guardarci, senza emettere un suono. incastrati alla stazione del dubbio...

venerdì 4 marzo 2011

veleno

veleno...
scende nella gola, si fa spazio...
veleno...
brucia molto quando arriva alla bocca dello stomaco...
veleno...
ha invaso i miei polmoni, e ora resta lì a bruciare...

il silenzio...
mi renderà pazzo...
l'assenza di altre voci...
il silenzio...

c'era una volta un uomo buono, che d'un tratto divenne cattivo.
c'era una volta un uomo cattivo, che tutto d'un tratto divenne buono.
si incontrarono e si uccisero, ognuno difendendo la bandiera che aveva appena impugnato rinnegando l'altra.
c'erano una volta due uomini, uno buono e uno cattivo, che lottarono uno per il bene e l'altro per il male. uno era corrotto e uno era redento, ma nessuno dei due morì contento.

mercoledì 2 marzo 2011

luce distante

sei una luce che non m'acceca,
una luce distante che illumina,
eppure inonda ogni cosa.

al tuo passaggio le cose normali,
diventano folli e geniali,
le innalzi ad un vero valore.

tu prendi al collo, fai soffocare,
e rendi mentirti impossibile,
parlarti è sempre, ragionare.

banale è parola che non t'appartiene,
e a starti vicino, a ridere forte di cose sceme,
mi sento leggero, mi sento bene.

all'amore dimenticato

son multiplo.
io parlo di sangue di fango e d'amore.
m'aggrappo sovente, all'inconsistente.

avanzo d'un passo, m'incazzo!
assai spesso divento depresso.
faccio due passi e non sono lo stesso,
rimando a domani poi resto perplesso,
mi muovo tre passi e sento la fretta,
non passa mai il tempo, ma che disdetta!

poi lucido torno alla carne!
passo la notte a scrivere forte,
per cercare rime intelligenti,
o dare un senso a frasi dementi,
che hanno perso ragione d'esistere.

sbilenco poi gioco coi suoni,
mi piace suonare la vita.
mi piace quel suono di tuono e di pioggia
che prima uuuurlaaaaaa e poi tin-tintinna.

il sapore di certe carezze ha il dolce
miraggio di cose non dette e mai
esplicitate, in sguardi che mi erano
amici da tempo dimenticati.

in confidenze leali ho perduto le mani
e mi sono negato alla carne sapendo
di non meritarla, di darle più tempo,
che dopodomani saprei guadagnarla.

all'amore dimenticato,
all'amore a me ritornato,
all'amore che avevo pensato,
con dolore l'ho rinnovato.

perché amare è ricordo di sangue,
la mente impegnata a rincorrersi e basta,
mi porta a pensare sempre alla stessa
inconcludente agonia di cui langue.

la soglia del definitivo mi occlude.
prendo la parte di me più rude,
e reagisco!
la rabbia non è una nemica,
è lo stato di grazia per ogni rialzata!

un poco dolente e titubante,
affondi il fendente.
un po' rinfrancato e colpevole,
ti senti rinato.

cariati-di

sporco, lurido, DENTE.
non ti hanno lavato.
ti han trascurato.
sei stato male abusato
da uno spazzolino usato.
sotto di te la gengiva sparisce.
si stacca.

cade a brandelli la bocca.
la mandibola scende, si sloga da un lato,
con un rumore sordo... si sfila...
resti a guardarti allo specchio
mentre sbilenco ti pende un occhio.

d'orrore si ammanta la faccia.
cade un orecchio. CAPELLI!
come se piovesse.
di cute seccata brandelli...
come tormenta di neve si sfrangia la pelle.
si secca, s'appoggia, discende.

...BUDELLA...
il fegato cade in terra con sordo rumore di schiaffo bagnato.
a seguire... le viscere...
le dita ossute, ritirate, portate sul corpo a tastarlo.
regna sovrana l'incredulità.
adesso hai paura eh?

si staccano via poltiglie di carne marcita.
fa schifo questa tua vita!
la vita de sto manichino... MESCHINO!
che ha scelto di impietosirsi fino alla denuncia di sé.
auto-condannato alla morte,
non vive, e lascia che il corpo lo fotta,
ed il cervello un po' liquefatto
gronda giù per le gambe.
ti sei pisciato addosso i pensieri...

se provi solo a parlare,
ti scoppia l'esofago!
che schifo, la tua parola!
la parola a sproposito detta e ri-mangata,
per cacarla più tardi.

il dente cariato per terra si sfalda,
diventa poltiglia giallastra e si squaglia
sul pavimento il corpo di pappa si spacca.
ah ah, sei rimasto una chiazza!

dissetarsi

mi nutro.
l'aria è il mio carburante.
e non la rivendono i benzinai,
non cresce il prezzo dell'aria.
(per ora)

dipingo.
a tempo indeterminato.

la pioggia mi abbevera, scorre.
scende leggera sul viso
depura il mio oggi
dai veleni di ieri.

l'artista produce di più
se sanguina forte.
di laceranti ferite, una vita.
di traboccanti calici rossi
s'abbevera la creazione.

l'esperienza ci trova esasperati.
sviliti sin quanto piegati.
e proprio quando tocchiamo
col naso sporco di fango
la terra bassa, nella palude
rialziamo la testa.

rialzate la testa!
rialzate le mani,
aperte sul sole,
bevete umani!
raggiungete le sponde più alte della vostra esistenza!
bevetevi il sole,
bevete la pioggia.
nutritevi d'aria a pieni polmoni!
la pace dell'anima arriva!