mercoledì 26 settembre 2007

Tratto dall'opera teatrale: "Porcile" di Pier Paolo Pasolini

-fine del III episodio-

[...] Ma la Germania di Bonn, accidenti,
non è mica la Germania di Hitler!
La tenerezza e la durezza vi sono mescolate.
Si fabbricano lane, formaggi, birra e bottoni
(quella dei cannoni è un'industria d'esportazione).
Del resto poi, si sa, anche Hitler era un po' femmina,
ma, com'è noto, era una femmina assassina: la nostra
tradizione è dunque decisamente migliorata.
Io sono madre, sì, ma affettuosa. E dunque?
La madre assassina, lei, ha avuto figli obbidienti
con gli occhi azzurri pieni di tanto disperato amore!
Mentre io, io, madre affettuosa, ho questo figlio
che non è né ubbidiente né disubbidiente?

- Pier Paolo Pasolini - Porcile -

martedì 25 settembre 2007

Stati transitori

A volte, mentre vivi compiaciuto le cose della tua vita, distrattamente incappi in un cassetto, in un foglio, in una lettera, in qualcosa che tieni nei tuoi nascondigli e che hai custodito da tanto tempo. La noti, la leggi, la riguardi. Passi un dito su una foto, come una carezza, rileggi parole che ti hanno fatto emozionare, rivivi sorrisi e lacrime passate. E lo fai con la testa di adesso, lo fai con una consapevolezza diversa, e ti rendi conto di quanto il tempo, davvero, cambi le cose. Guardo un letto sfatto, che non è più il mio: ho portato vestiti sempre diversi, mi accorgo, quante maschere ho dovuto sfilarmi, fino a riuscire a sentire l'aria fredda della verità sulla pelle del viso. Il tutto viene da una serata passata a bere vino con un amico ritrovato, a sorridere di cose belle e brutte, al piacere di pensare a qualcuno. Viene da una notte, spesa a parlare di cose non banali, con una ragazza interessante, e capire che è quello che voglio da un confronto con le persone. Viene da un piacere, morbido, in famiglia, di una quiete dondolante, che alla fine, non fa soffrire nessuno. La felicità è uno stato transitorio, ma la vera forza sta nel capire che anche la tristezza lo è.

#RK#

sabato 15 settembre 2007

artifici artificiali

ci sono sentimenti contrastanti, continui, nelle dualità nascoste nel profodno di noi stessi. quella parte recondita di noi, che crediamo di conoscere, eppure è sempre lì a sorprenderti. la dualità, l'esistenza continua di due flussi uguali e contrari di pulsioni, alterazioni, voglie, desideri. un momento sei lì a volere una cosa, e dopo sei cosciente, che nonostante tutto, vuoi anche il suo contrario. indecisione? titubanze? insicurezze? è reale, ciò che tocchiamo, o è l'eterna illusione... niente è normale, perchè niente è come sembra, poichè niente è reale, è tutto il risultato di un artificio sensoriale, strane forme familiari ci circondano, eppure, solo i sentimenti ci accomunano, perchè vengono da impulsi primitivi. l'astrazione dei pensieri nelle forme più tribali, la manifestazione di elementi universali, la materializzazione dei nostri desideri, scissa da ciò che è materiale. scolpire il tutto in un'eterna vibrazione senza scopo nè collocazione. l'ubicazione di noi stessi, ci è ignota, se cerchiamo di collocarci nello spazio che ci circonda. non siamo, non sostiamo, perchè effettivamente, non esistiamo. se non in forma di noi stessi. i nostri sentimenti non si toccano, i nostri pensieri non pesano, se non nei nostri animi e nelle nostre gioie e sofferenze. servirebbe un'altra unità di misura, per l'intensità e il peso del pensiero. calcoliamo distanze astronomiche, masse inimmagginabili, eppure non sappiamo dare una forma a ciò che ci fa sorridere, o a ciò che ci fa cadere una lacrima. è tutto un artificio.

venerdì 7 settembre 2007

Notturno stradale

Dopo un giro infinito per le vie del mio quartiere, a cercare un maledettissimo buco dove parcheggiare la macchina, lo trovai. Non scesi subito dall’auto, aspettai che la canzone che stavano passando alla radio finisse, così riposi tutto nello zaino, e scesi, constatando che l’estate ci aveva lasciato, non era più tempo di stare con la maglietta, bisognava cominciare ad indossare qualcosa di più pesante. Avevo una felpa nello zaino, ma non la presi, preferii subire il gelo di quella notte sulla pelle. Appena chiusa la macchina feci pochi passi, del piccolo tragitto che mi avrebbe portato a casa, e pensai che in quella notte limpida, rischiarata da tre quarti di luna ci sarebbe stata bene la compagnia di una sigaretta, così presi il tabacco e le cartine che avevo in tasca e in dieci passi la girai, la leccai per bene, e l’accesi. Decisi di camminare con passi lenti, ed assaporarmi in fondo il freddo di quella notte così gradevole. Le strade erano deserte – d’altronde erano le quattro di notte, o di mattina? – senza fretta mi guardavo intorno. Le vie della mia zona; uno ci cresce per anni, ma ciò che ci circonda non lo osserviamo, è solo la scena montata alle spalle della nostra vita. Un muro, pieno di crepe e di manifesti sovrapposti, oltre alla fugace occhiata che merita quando gli si passa di fronte, non potrà pretendere di più. Eppure, sopra una spessa coltre di vecchie affissioni, vidi un necrologio: moriva nel lontano luglio, un uomo di cinquantaquattro anni – troppo presto per morire pensai – e tra il cordoglio dei parenti e degli amici, in fondo a destra, come i cessi nei locali pubblici, c’erano l’indirizzo e il numero di telefono delle pompe funebri che l’aveva stampato. Non so perché, ma l’età del defunto, e la tristezza che quel pezzo di carta mi avrebbe dovuto trasmettere svanirono, per far posto ad uno sconcerto ed una rabbia sottili, quasi inevitabili e invincibili. Camminai ancora un po’, la sigaretta era quasi agli sgoccioli, ed ad una fontana mi fermai per bere dell’acqua freschissima. La sigaretta divenne mozzicone, l'aria fresca mi destava ad ogni passo. Ancora dieci passi, pensai, e poi sarò un po' più vicino alla meta. Ancora dieci passi.

martedì 4 settembre 2007

Maphia Phone

“Pronto?”
"Ciao, sono io, come andiamo?”
“Tutto bene.”
“La facisti quella cosa?”
“Quale cosa?”
“La cosa di quel pacco.”
“Certo, ma ebbi un po’ di grane con la macchina.”
“La macchina? E che tipo di grane ti ha dato?”
“T'arricordi che la portammo dal meccanico per quel guasto?”
“Sì, m'arricordo.”
“Ebbene, dopo du simanate, s'arrippresenta lo stesso problema.”
“Cose 'e pazzi. Ma la cosa non ti ha creato troppi problemi vero?”
“No, la macchina è stata un problema marginale. Quello che mi ha dato più fastidio è stato 'u portieri, che non voleva farmi trasiri nell’edificio.”
“Sì, ma poi trasisti?”
“Ma certo che sono entrato.”
“E come fici?”
“Ma che minchia mi chiedi? Col solito metodo.”
“E qual è il solito metodo?”
“Non t'arricordi il solito metodo?”
“No signore, 'un m'arricordo va bene! Che vuoi fare adesso mi vuoi processare?”
“Ma che minchia vai dicendo nessuno ti vuole processare.”
“Allora si può sapere qual è questo strafottutissimo "solito metodo"?”
“Quello che s'inventò Sonny, per trasiri in casa di Mike “giacchetta”! Adesso te l'arricordi il metodo?”
“Ma certo che m'arricordo, non sono mica rincoglionito. E poi sei riuscito a portare u' pacchettu?”
“Sicuro! Ma prima ci fu problema.”
“Ma mi avevi detto che l’unico problema te lo aveva dato 'u portieri.”
“Ma allora vedi che non ascolti! Ti ho detto che 'u portieri mi ha dato fastidio, ma col metodo di Sonny me la sono cavata e non poteva essere un problema.”
“Scusa, ragione hai, non ho prestato bastevole attenzione.”
“Va bene, non ti scusare, è che sono ancora un po’ nirbusu.”
“E 'u problema quale fu?”
“'U problema veru fu trasiri dintra l’appartamento d'u tiziu.”
“Quale tizio?”
“Ma mi stai pidjandu p'u culu?”
“No, no... serio sono!”
“Tu mi telefoni per sapere se il pacco è stato recapitato al tizio, e poi mi chiedi chi è il tizio?”
“Voglio solo sapere se hai fatto il lavoro come si deve.”
“Il tizio è la persona che decisimu l’altru jorno, quando stavamo a giocare a poker da chi sai tu.”
“Perfetto, volevo solo sapere se avevi afferrato. E 'u problema che mi dicivi?”
“Ci stavo arrivando, ma se tu mi riempi di domande minchiuse ogni secondo non finisco più di raccontarti.”
“Continua pure, e chi t'iinterrompe...”
“'U problema fu Joy “panzetta” di fronte alla porta con un cannone calibro quarantaquattro.”
“E tu che hai fatto?”
“Gli ho mandato un mazzo di rose e ci ho ballato il tip tap.”
“Ma che minchia dici?”
“Ma che minchia dici tu, arrusu fetusu che non si autro! Gli ho sparato, che minchia ti credi che dovevo fare?”
“Bono facisti! Hey, mi fici arridere con la storia del tippe tappe.”
“Fai bono a ridere, ridere fa bene, sapessi quanto arrideva Joy quando gli ho messo la pistola sotto la panza. È morto dalle risate!”
“E dopo che l’ammazzasti?”
“Lì le cose si complicarono, perché ho dovuto nascondere il corpo.”
“E dove minchia lo mittisti?”
“Ci stava un armadio a muro.”
“E allora?”
“E allora ce l’ho messo dentro! Ma che sei scimunito? Se ti dico che ho un corpo da far sparire e che ho trovato un armadio a muro che credi che intendo?”
“Che ci mettisti 'u corpu dintra all’armadio a muro, ma mi credi così rincoglionito?”
“No, è che mi fai incazzare con le tue domande della minchia.”
“Prosegui.”
“Dopo che ho nascosto il corpo, trasì nella cammara, e appena entro che ti vedo?”
“Che vedi?”
“Vedo che 'u tiziu non era solo.”
“E con chi michia era?”
“Era con una fimmina. Una picciotta mora trentina che faceva girare la testa.”
“Minchia e che stavano facendo?”
“Facivanu 'na brisculata co' panelle e mezzo litru 'e vino. Ma che minchia di domande mi fai, fottendo stavano!”
“Fottevano?”
“Sì, fottevano, lo sai che vuol dire o ti devo spiegare pure questo?”
“No, non me lo devi spiegare.”
“E allora trasì, li ho fatti mettere seduti sul letto, e ho dato il pacchetto al tizio. Lui ha detto un sacco di minchiate sulla famigghia e sull’onore, e dopo che ha finito li ho accoppati tutti e due.”
“Li accoppasti?”
“Sì, tutti e due!”
“Tutti e due?”
“Minchia sì, tutti e due!”
“Minchia, bravo!”
“Grazie! Tu invece che mi dici? Tutto bene?”
“Certo che va tutto bene!”
“Stasira ci vediamo da chi sai tu?”
“No stasira devo fare una cosa.”
“E che minchia devi fare?”
“Ma come che devo fare, devo fare "quella cosa" che decidemmo quella "certa sira" da quella "certa pirsona"…”