domenica 29 gennaio 2012

sognar m'è dolce in questo mar

faccio dei sogni.
contorti e malsani,
raccolgo api con le mani,
sbraito a persone,
e brandelli di carne appesi al soffitto,
stanno a slegare il vero dal tutto,
levano il manto di reale coerenza
ad un'istanza della coscienza,
ad un momento lontano da ora,
eppure vicino, accostato, parente.
l'aria si fa tetra e pungente,
acido in bocca, e saliva copiosa,
e sentire di nuovo alla pancia la morsa,
come una tenaglia, come la vita,
come se ancora non fosse finita,
l'eterna battaglia tra sonno e veglia,
e suona incessante l'odiata sveglia,
veloce riporta alla coscienza,
riporta le cose alla norma fatta,
al concreto essere, l'eterno venire.
un altro minuto ancora, solo per aver
ancora un po' di sogno, ancora un po'
di liberi pensieri affastellati nella mente,
ancora un po' di libertà...

mercoledì 25 gennaio 2012

un senso alle zanne

passai la notte fuori come un cane, nei cartoni, nella cuccia del domani, passai la notte, e l'annusai, la notte, e l'erba di quel prato, e l'umidità. il naso strusciava su umori di terra umida e foglie rinseccolite e ingiallite, umidicce e in corso di dissoluzione. le dita, con le unghie sempre più lunghe, si aggrappavano alla terra, e piano piano artigliata dopo artigliata, mi facevo spazio in quell'involucro di carta e foglie secche. la terra, aveva un sapore omogeneo, forte e bastevole a farmi stramazzare di gioia. la barba, lunga e contorta si legava ai rami che  mi graffiavano la faccia e mi ostacolavano l'arrampicata, su parete verticale, un prato verticale, inondato di insetti e rugiada finissima. la brina della mattina, e il sole trasversale, imponeva nuove leggi, e lì dove la fisica si accostava al divino tutto perdeva di senso. e gli atomi erano comodamente slegati, in un secondo, tutto dissolse la realtà, e il letto mi fu giaciglio bagnato di umidi sudori. annaspando resi merito all'onirico stare, e volevo tornare, tornare, nel sogno che lasciai, ad assaporare ancora la terra, e strisciare sull'erba umida, e provare il piccolo dolore di granelli di sabbia incastrati sotto le unghie, e le zanne che finalmente avevano un senso, poterla mordere la terra. poterla sentire. si sgretolano i denti a mordere cemento.

martedì 17 gennaio 2012

lezioni di algebra

lezioni di algebra.

l'incognita è la S, che è diversa da Zero.
l'incognita è la R, che è diversa da Zero.
R+S=?
dove ? è un punto interrogativo senza nessun valore.
"?" è diverso da 1, da 2, da 5, da "n".
"?" non è un numero.
quindi "?" numericamente non esiste.
"?" è un concetto.
allora: R+S = "un concetto"
"un concetto" è un contenitore di colori. sono acrilici.
e sono corpi, corpi sporchi di colore.
sono acrilici, che non hanno dimensione.
restano addosso agli indumenti,
sono indelebili.
gli acrilici entrano nei tessuti, sopratutto nei jeans.
quindi, algebricamente, "un concetto" sporca i jeans di colore.
allora "un concetto" = J(C+Kc)
considerando la costante J come tutte le paia di jeans che ho messo in lavatrice e non ho smacchiato dalle gocce gialle, rosse e bianche che vi sono depositate. anche gocce blu.
C è la quantità di colore e Kc è la sua "emissione casuale da mani romantiche che sfrecciano nell'aria lasciando scie di colore e perplessità" detta anche "caos" o "costante dell'Imbrecciato".
arriviamo quindi a definire che: R + S = J(C+Kc)
nell'algebra classica, della quale io non so niente, questo tipo di equazione è conosciuta come "equazione dell'ipotetico incastro".
fondamentali sono le due vere incognite R e S, per le quali determinare il valore, si deve fondamentalmente conoscere la quantità di colore rimasta appiccicata ai pantaloni dell'altro. da qui le formule inverse:
R = J(C+Kc) - S
S = J(C+Kc) - R
quindi, per fare in modo che le due incognite S e R non si annullino, il loro valore deve essere sempre differente dalla quantità di colore rimasta appiccicata ai pantaloni dell'altro.
per questo motivo, in ambito del tutto scientifico, non si può ammucchiare troppo colore sui pantaloni, altrimenti si rischia un annullamento totale di una delle due incognite e questo non è auspicabile in quanto le due incognite R e S, purchè possano avvicinarcisi ciclicamente, non arriveranno mai ad essere Zero.
la soluzione dell'equazione dell'ipotetico incastro deriva quindi da quanti jeans ho messo in lavatrice, e la quantità di jeans inseriti è 3, mente la quantità di jeans puliti che ne sono fuoriusciti è 0.
sostituendo la costante J al valore ottenuto dall'ultimo lavaggio in lavatrice la formula si semplifica e possiamo notare come si sviluppa:
R = -S
S = -R
questa situazione, il caso limite diciamo, è facilmente risolvibile con il teorema di Krimson che dice:
nKk = -n 
-nKk = -n
un numero positivo che si ascolta i King Krimson è come un numero negativo, e un numero negativo che si ascolta i King Krimson resta un numero negativo.
applicando il teorema di Krimson andiamo così a scoprire che:
- R = - S
- S = - R
che vale a dire che:
R = S
S = R
abbiamo dimostrato che le due incognite sono identiche. pertanto perdureranno fughe, incertezze, titubanze, cambi di stato, improvvisazioni, sbalzi d'umore, coinvolgimento parziale, divertimento, risate, ore di chiacchiere, che possono essere riassunte tutte nella formula:
F = I(C+O)
dove F sta per fuga, e i valori C e I sono corrispettivamente la certezza e l'incertezza. e O una variabile particolarmente inutile ma che serviva per produrre un valore semantico e idiota all'equazione.

fine lezione di algebra.

lunedì 16 gennaio 2012

e intanto nella testa, un ronzio fastidioso incessante

al telegiornale hanno detto che i deodoranti fanno male.
e le scale ieri erano affollate di ricordi quando per caso hanno portato la bara di sotto.
c'erano tre becchini e il figlio che scendevano quella scaletta, di quel pianerottolo senza ascensore.
l'ha voluto far morire in casa, diceva la signora di sotto,
ha fatto bene, no ha fatto male si chiacchierava nell'abisso condominiale.
e quelle scale che suonavano definitive, con il loro toc toc, di scarpe lucide nere messe per l'occasione,
con quei tacchetti da uomo, molto rigidi e massicci.
da bambino mi ci capitò un dito sotto il tacco di una scarpa di mio padre,
forse c'era capitato per sbaglio, forse c'era capitato apposta,
forse il tacco non era stato addomesticato o forse il dito,
era semplicemente distratto.
sui giornali c'era scritto che il cambiamento era alle porte, anche se
in questo periodo difficile bisognava fare dei sacrifici.
era un giornale stampato a venezia, nel milleseicentotrentasette.
e a venezia in quel tempo, circolavano libri, importanti edizioni uniche.
sul muretto appena fuori della chiesa leggo il nome e il cognome di chi conosco.
ma non ho il coraggio, non ho la tempra di liberarmi dal silenzio,
non ho la voglia, non ho la smania di allargare le mie fauci a sorriso.
non oggi. forse neanche domani.
e l'aria era fredda come se qualcuno avesse messo in pausa il tempo.
tutto pareva avvenire in un film. e c'erano le controfigure dell'umanità a guidare macchine e a fare la spesa.
non riconoscevo nessuno. nessuno mi guardava, e non proferivo parola.
quando sono rientrato in chiesa dopo tanti anni, le parole del prete avevano il suono meccanico del
marketing, e per una doppia confezione di cristo i prezzi erano bassissimi.
poi ero vicino al mare, e mi sono visto l'increspatura grigia sotto le nuvole rade,
che parevano un campo di grano morto, e a tratti delle isole di luce.
quando sono andato in spiaggia ero solo. il vento mi spingeva i granelli negli occhi e
il tempo non passava. ero un albero. le mie fronde si muovevano lente, e la mia pancia
non aveva sete o fame, e la mia pelle non sentiva freddo.
ero fermo come un cipresso, e scrutavo il mare, e dovevo alla natura una gratitudine
totale. le dovevo quella gratitudine che nessuno mi ha insegnato, che ho imparato a sviluppare,
togliendone a tanti uomini, a tanti sepolcri, a tante istituzioni.
la bara scendeva dalle scale e quel ticchettio mi spargeva i pensieri in poco poetiche imprecazioni.
ed ero mesto e furente, ed ero attento, che in questi momenti il clichè ti può cogliere all'improvviso.
ed ero attento, perché è proprio così che si cede a quel mostro. un terrificante bestione dalla voce bassa e la bocca grande, la mistificazione.
appena fuori dal paese l'aria era piovosa, e poi un sole impertinente s'è ripreso la scena come a stabilire un ordine che non potevamo capire. quando salutammo quel corpo. murato dentro a un cassone di cemento, ci fu qualcosa di crepitante e inspiegato. io non mossi un muscolo. la bambina più dolce del mondo stava immobile dietro ad una schiera di parenti più alti di lei con un mazzo di tulipani rossi in mano. mi pareva ci fosse soltanto lei a guardare. e come poteva elaborare? come poteva metabolizzare?
allungai un braccio e senza dire niente la tenni stretta al mio corpo. volevo essere lei. inconsapevole, forse, curioso, sgomento, triste, con quelle manine che stringevano tulipani inutili. ornamentali.
i passi. le parole. le promesse. le aspettative. la cazzuola raschiava il cemento applicando quel tappo di pietra che ha quel sapore di definitivo. dopo questo nient'altro. dopo questo nient'altro. la semplicità della vedova. e i suoi occhi distanti. sereni. come un sigillo sul tempo. eppure, vuoti da ogni complessità borghese. naturali. tristi come quelli di una gazzella che ha perso il suo cucciolo. rassegnati e consapevoli.
avevo voglia di essere violento in parole.
avevo voglia di martoriare le orecchie e la carne per la consuetudine abietta della ricorrenza del divino in queste situazioni. poi ho scelto il silenzio. ho scelto la pace.
un pettirosso si è palesato più volte in quel giorno. un pettirosso dall'aria fugace e festante, beccava la terra in cerca di vermi e quant'altro, e stava con quel petto decorato di rosso, fiero, minuscolo e scaltro.
ho sorriso.

morirai domani

ciao, uomo che vivi con prudenza.
la tua indifferenza verso i problemi di principio e di sostanza mi provoca ribrezzo e intolleranza.
la futilità di cui sei schiavo e ti ricopri, ti rende puzzolente e repellente, nonostante i profumi che t'inondi.
maleodori dall'interno, maleodori e sei contento del tuo andare senza tempo, senza senso, senza vento.
la parola che ti è data è sprecata come ogn'altra concessione che t'e stata lasciata dal pianeta,
abbondi di parole come un camion de munnezza, ed appena te s'è fatta na domanda inappropriata
me la scarichi a dovere, piena de schifezze varie pè condì un fraseggio spoglio com'a vita che conduci.

uomo medio tanto per la cronaca, per la statistica dei numeri, ma mediocre pè sti occhi che te scrutano,
uomo medio, uomo mediaset, uomo mediolanum, tutto quello che è mediocre c'ha lo stampo, c'ha la firma,
resti mediocre senza mediare, che nel mezzo c'è la verità, e lontano sei da essa che ti sfiora a cent'a l'ora
senza mai battere un ciglio. niente ti sgomenta se non l'aumento della vita che conduci,
sei lontano. lontano dalla vita, lontano dalla gente, lontano dalla puzza de sudore.
sei lontano dalla madre, sei lontano dallo spirito, sei lontano, quasi inesistente.
eppure gestisci, decidi, detieni potere, senza merito e alieno al senso del dovere, te che abusi della terra
che t'è stata data in prestito, per un attimo, per un secondo. tu che non hai afferrato che siamo
schegge di tempo, in minuscole entità, così semplici e complessi da poter differenziarci, così piccoli e tremendi da poter esser dannosi. così insulsi, impotenti, ma così grandiosi e intelligenti, da poter marchiare a fuoco l'esistenza. opulenza, è la tua unica obbedienza, hai pazienza solo quando non paghi a sufficienza, e l'arroganza che generi con demenza, è la matrice della tua docile violenza, applicata da lontano, senza mai sporcarsi troppo, mediata dal tuo servo, dal tuo piccolo seguace un po' corrotto. quel tuo padrone schiavo ch'è il denaro, ch'è il possesso, ch'è la smania d'esser grande, senza mai far niente o troppo.
ciao, uomo che vivi con prudenza.
io mi auguro che col ciclo delle vite, l'uomo viva con saggezza, e ti faccia diventare fuorilegge, io lo spero vivamente, dato che in quest'esistenza, conti come foglia morta, conti come buio al buio. sei importante come il niente.

venerdì 13 gennaio 2012

carlo

ombre...
pallidi volti di luce.
consapevoli e miti.
rituali vissuti perpetui,
si accompagnano nella casa.
parola che sorge più vera
è solo: cordialità.
abbraccio.
raduno di corpi e di interazioni.
presenza, per affievolire
il mesto commiato.
la calma, e la gioia.
come quel ramo che copre il sole,
come il rumore del vento nella siepe,
come la terra che beve l'acqua e
dà vita ad un nuovo orto.
stracolmo di frutti.

lunedì 9 gennaio 2012

l'uomo dei gabbiani

era sul ponte bianco di viale marconi, quel sole di quella domenica di gennaio, stava lì camminava col suo cappotto triste e mesto, tanto triste e tanto mesto che le persone che incrociavano il suo sguardo si riempivano di immotivata tristezza. camminava e dietro di lui una scia grigia veniva lasciata, come la scia della barca che passava sotto di lui, sotto quel tevere morto ammazzato. in alto un cielo di nuvole frammentate, e ammucchiate addosso al sole, tanto ammucchiate che potevi osservare la palla gialla che stava lì, a irradiare chissà che, chissà cosa. nel cielo: gabbiani. a spirale, volteggiavano nel cielo, come avvoltoi, disegnavano cerchi concentrici sfruttando le correnti ascensionali, planando di lato spostando il corpo di un grado. l'uomo mesto si fermò dal suo lento camminare, a puntare il naso all'insù con un misto di curiosità e felice semplicità. un volo di gabbiani che meravigliavano il cielo con la loro danza, con un valzer roteante di squilli e versi acuti. il traffico, lo smog, la puzza del fiume, ed un vento leggero e freddo. i gabbiano scesero, a roteare sempre di più, un turbine, un'esplosione di candide piume lunghe, fragorosamente si abbatterono sull'uomo col cappotto triste. lo beccavano, sul viso, negli occhi, sulle mani, e lui fermo lì a guardare il cielo blu che in quel giorno di gennaio era blu, e sempre più bello e blu. prima uno, poi due, poi cinque, poi tutti i gabbiani lo agguantarono per il cappotto mesto e marrone, lo acchiapparono e lo portarono nel cielo blu. lo portarono via, e lui con brandelli sanguinanti di pelle ancora viva che gocciolava un rosso sangue denso e caldo, non fece una voce, non fece un grido, non un lamento, non una lacrima, nè una titubanza, non un tentennare, non un gesto con le mani per scacciarli. e il cielo di roma si tinse di un punto marrone, di un cappotto triste e mesto, che senza consenso, con violenza e disperazione, aveva lasciato quella terra, per fuggire verso il sole.

mercoledì 4 gennaio 2012

l'urlo

ho cominciato un mucchio di volte un romanzo chiamato l'urlo.
l'ho cominciato tante volte, che ora i personaggi non sono più gli stessi, le ambientazioni si sono alternate tra realtà e immaginazione, e le vicende, mai le stesse.
cosa allora hanno in comune tutti questi fallimentari incipit?
l'urlo.
l'urlo è l'unica cosa che li accomuna, l'unica cosa che li tiene legati.
e allora ho scoperto che non è nel raccontarlo l'urlo che sono capace a creare qualcosa di buono, che so, una storia o un romanzo. st'urlo lo devo cacciare dalla gola e spararvelo in faccia.
un urlo che non vi piaccia, un urlo che vi frammenti le menti.

lunedì 2 gennaio 2012

la tua schiavitù

tu l'ami...
ti ci avvolgi te la gusti.
la tua futilità, il tuo gusto per l'apparire, e spesso: l'arroganza.

predichi bene e razzoli male, uomo\donna occidentale,
sparli su coerenza, quando di contraddizione non sai star senza,
studi una vita, e poi vuoi insegnare, ma senza umiltà...

la libertà va imparata, e non si acquista, e non si trova,
e non si raggiunge con rituali energetici.
la libertà è uno stato sociale, un impegno morale.
non è di certo comprarti quel cazzo che ti pare!

e schiavi... ignari e ignavi...

accadimenti

accadimenti! mentre ti dimeni e ti lamenti,
la vita chiude i suoi battenti e un nuovo animo s'appresta
a farti stringer denti, e di tanto in tanto tenti di sbrigliarti ma è importante
ricordare che non ci son briglie lente al tuo mordace morso aperto,
c'è solo smarrimento e una dolente calma dentro che ti può far franare
giù dal parapetto!

accadimenti! accidenti, si son messi tutti in fila sti dementi,
aspettano che il tempo sopraggiunga e li spaventi,
con nuovi effetti drastici e contenti mutamenti,
di gioie effimerissime e di giochi senza senso,
di danari sfavillanti e di prodotti per il corpo virulento,
che già solo a nominarlo casca a pezzi manco dentro ci fosse qualche tarlo!

accadimenti! da tutti gli altoparlanti e dai balconi luccicanti,
dalle radio e dalle musiche, dalla visione accidentale,
dalla candida emozione di una vita formidabile,
alla squallida secrezione di una morte incontenibile,
alla pallida costante sempre in cielo e come il mare.
animale dentro e fuori, io ci voglio ritornare.