lunedì 16 dicembre 2013

dicembre

la cristalliera.
e bicchieri lucenti alla luce di dicembre che filtra dalle tende chiare.
e in certi bagliori di sole il pulviscolo.
il pulviscolo scende e si deposita, per sempre.

la libreria.
tutti i libri a guardarmi, pieni e boriosi del loro sapere.
sugli scaffali abbandonati, la polvere già dimostra giorni di pulviscolo.

l'anima.
incollata al corpo.
cucita alla pelle, disegnata sul volto, e un grido dentro che ha sempre da nascondersi dietro impegno, abnegazione, difesa, sorriso, lotta.
e il mio cuore che scoppia, e la paura del contesto, e l'impossibilità di scendere a patti col reale.
fa male.

il tavolo.
sul tavolo circolare il verde panno da gioco per il poker, e per le serate di natale.
il telecomando, la scrivania, il computer, gli scatoloni di cianfrusaglie ricolmi di nulla.
le sedie, cospirano attorno al tavolo.
il pavimento mormora marmoreo i suoi ricordi. quanti piedi l'hanno calpestato. ricorda tutte le calzature e sopratutto ha un fremito per i piedi nudi.

gli oggetti.
sparsi senza mai un vero posto nella stanza gironzolano e fanno conoscenza durante il tempo che passa.
io che parlo agli oggetti, e mi scordo delle persone.
ho incontrato una vecchia ciabatta, e ora, ricomincia la conversazione.
il vicino di casa è lontano.
lontanissimo.
più vicina lo è la mia amica che abita a quaranta kilometri.
è più vicino il lontano che il lontano vicino. almeno a quest'anima.

avrei scritto una storia fantastica, fatta di mondi e di luoghi nuovi, se solo sapessi seguire le regole.
se solo imparassi, le regole del gioco.
un gioco di ruolo.

venerdì 13 dicembre 2013

il bar della memoria

sto corridoio, era stretto, ma non troppo, giusto lo spazio giusto pè fa passa il cameriere. e ai lati del corridoio, giusto lo spazio giusto per metterci dei tavoli per due persone. in fondo al corridoio, un corridoio lungo, in fondo a destra la toilette, e poi più in là una nicchia nel muro dove c'era giusto lo spazio giusto per la cassa e di fronte il bancone. su ogni tavolo c'era giusto lo spazio giusto per il centrotavola e volendo, nelle ore della sera che la luce soffusa ci stava bene, una candela. e le pareti, ricolme di cornici incornicianti ogni immagine di qualsivoglia estrazione. dal fumetto al ritagli di giornale, e disegni sui tovaglioli degli avventori, e stampe antiche, quadri antichi, tappeti persiani, stralci di carta da parati, foglie caduche cadute chissa dove, fotografie. ed ogni avventore è un amico, ogni avventore sa cosa vuole si siete e chiede il solito. e il solito è servito su piatti meravigliosi e la pietanza ricopre giusto lo spazio giusto per far bella figura perché la pieanza va ben curata, ben cucinata, e ben presentata. Le bevande hanno un bicchiere dedicato, giuste per il loro giusto contenuto. in questo luogo, che per ora è solo immaginato, c'è giusto lo spazio giusto per la felicita.

domenica 8 dicembre 2013

do, me, ni, ca

era da mesi che non mi capitava di vivere domenca mattina.
essere domenica mattina.
la domenica mattina vuol dire lla messa da bambino,
vuol dire il pranzo,
vuol dire dormire,
vuol dire fare colazione con la tua famiglia.

poi succede che vai a vivere da solo o che lavori anche la domenica, perché il capitalismo se ne frega del giorno in cui il signore si è riposato, allora per un po' tutto si sbilancia.
non c'è domenica,
non c'è il giorno domine,
non c'è il giorno dedicato a Dio,
non c'è il giorno dedicato al sole,
gli anglosassoni chiamandola Sun Day, sono più veritieri.

Il giorno del sole, vivilo col sole, essendo solare,
sorridere, quando hai il sole sul viso è teneramente facile.
sorridere, quando il calore del sole ti pervade, ti ammanta, di ingloba.
è giusto.

buona domenica.

sabato 7 dicembre 2013

il vecchio Joe Ventù

senilità.
dimenticamento di come si fa.
o come si sa?
come farà?
sapere che le certezze come i capelli cadono.
non accettarlo.

avanguardia o baluardo?
forestiero e roccaforte del mio niente,
spregiudico perdente la mia fine,
e stanco volgo al termine, portandomi le rime
nella tomba.

sottoforma di sformata boria,
zoppico attraente della compassione altrui
le camere anguste della mia prigione.

ed al cielo non volgo pià lo sguardo,
se non per la tempesta,
e degli affari altrui ormai mi incuriosisco,
con disperata supplica che disgrazia avvenga,
per poter parlarne ancora e ancora,
con malevola incombenza.

senilità,
nemica acerrima di novità,
astuccio comodo di astio e collera,
l'ingrato giudica e male tollera.
vestito della sua bieca ignoranza,
da solo danza, che se la canta e se la suona
la sua sapienza fatta di niente,
di pregiudizi mai verificati,
e sempre ingoiati.
come i porci, s'ingolla tutto, e quel che mastica poi digerisce,
anche la merda, anche le scheggie.

senilità,
ti prende in pieno e ti porterà,
dove van tutti con banalità.
che questa fine appartiene a tutti,
le membra morte e i loro lutti.

domenica 1 dicembre 2013

Indecorosamente Me-tro

uno dodici tredici, uno dodici tredici,
credici, è una data credici.
leggo l'artusi, il pellegrino,
è morto un altro motociclista,
la metro non passa,
ho un ginocchio a pezzi,
ho trentadue anni,
uno dodici tredici,
uno dodici tredici,
lei mi ama, io la ama, ci amiamo,
uno dodici tredici,
uno docili tremiti.
lei mi ama, e io pure, mi amo.
io la amo, e pure lei, si ama.
ci amiamo.
è colpa della bibbia se parlo così.
il cimitero di campo cestio, come il campo marzio, o il campo boario.
lì diceva che non è uguale.
loro si baciano, sono seduti l'una sull'altro.
e la tv manda pubblicità natalizie.
uno dodici tredici, credici. è così.
anche gli altri due si baciano, capelli e lunghi cappelli, e lunghi capelli.
zoppico e scrivo un taccuino, stammi vicino.
le rime ci rendono idioti, e uno e undici e tredici.
è una data, lo è, è una data.
c'è una ragazza con gli occhi blu e le orecchie da gatto su cappello, e gli occhi blu in faccia.
ricorda me lei, di una che è incinta.
anche lei.
e l'altra, e l'altra ancora.
siete incinte.
bellissime e incinte.
fra poco madri, ma ora incinte bellissima madri future.
dove hai riposto la tua libertà?
nelle aspettative di papà?
la famiglia accanto a me,
parlano, non so che lingua è.
le rime talvolta ci rendono idioti negli idiomi.
la data è il titolo, la data lo è,
uno dodici tredici,
uno dodici tredici.
io non so se problema esso è,
ma sento un ginocchio cabriolet.
la rotula libera sciacqua e fa male.
lo avevo detto a quel maiale,
che fa il dottore all'ospedale.
cavour, cavour, perché sei tu cavour?
entrano uno e la sua due, sanno di erba. come lo so?
ingenui.
ho finito le penne. ho finito i fogli.
mi chiedo perché non finisco mai le parole.
non sono quasi mai d'amore.
non sono quasi mai per raccontare,
sono parole per confortare.
me stesso.
uno dodici tredici, uno dodici tredici.
parole
per riempire il tuo vuoto interiore,
parole
parole finite e fogli da imbrattare tanti,
ci sono più fogli che idee, più penne che parole.
ci sono più schermi che persone.
più masturbazioni che passione
c'è più cielo e meno terra,
c'è più desktop che realtà.
fotografie, pornografie,
egemonie delle varie anarchie\oligarchie
senza lavoro sei perso,
senza lavoro giochi sporco,
senza una meta nell'universo
sei solo il solito porco.
a volte le rime ci rendono idioti.
uno dodici tredici, uno dodici tredici.
il collante per tenere insieme il niente
è una data e niente più,
e la confessione che le rime mi rendono deficiente,
e niente più.
la rima, e per forza la rima e l'assonanza, la risonanza.
l'artismo.
fai l'artista? no sono un artistico autistico, ordinale, numerale, cardinale.
porporato.
colorato di rosso ed entrato per 15cm in un bimbo.
ho letto la bibbia.
giacobbe non era gesù.
per niente.
in tutta la terra di canaan non v'era delinquente più lussurioso e manipolatore di giacobbe.
che dio poi chiamò israele.
scendo a tiburtina.
tiburtina meltin' pot.