sabato 12 luglio 2008

neuroni confusi

Dietro la tenda, alcune luci decoravano l’asfalto bagnato di pioggia. Cadeva ancora, nelle vicinanze dei lampioni si può vedere, quando pivoe, un pezzo di cielo che si riempie di pioggia, nell’oscurità più totale. Scostavo la tenda e il mio respiro appannava il vetro. C’erano troppi pensieri quella notte. Una notte di maggio. Quando in quel giorno maledetto mi innamorai di te. Come se non bastassero i casini della mia vita, io mi dovevo andare ad innamorare di una come te. Io lo sapevo da subito che non avrebbe funzionato. Ma il fallimento è una cosa che avevo sperimentato tante di quelle volte, che una in più non mi avrebbe di certo intaccato. Sospiravo sul vetro, e pensavo a te. Pensavo ad un idea di te che stava appesa nelle mie deliranti voglie.

Non si può descrivere cosa si prova in quei momenti. Un senso di vuoto. Un senso di caduta. Sarà per questo che in inglese si dice “to fall in love”. È un precipizio che si vuole intraprendere, è un salto che troppe poche volte si ha il coraggio di fare. Ed è una caduta a sperare, a planare, non segue le leggi della fisica. È una caduta anomala. Si capisce quando si atterrerà su un letto di piume soffici,o quando lo schianto sarà forte. Forte, che il dolore sarà grandissimo.

Pensavo di scrivere qualcosa in quei momenti. Di mettermi al computer e di picchiettare sulla tastiera fino a notte fonda. Ma non era così. Da tempo mi ero fermato, non riuscivo più a scrivere. Non avevo più emozioni forti. Anche adesso che però annegavo in un turbinio di passioni e di sentimenti travolgenti, i miei pensieri non trovavano la coerenza necessaria per raggiungere il traguardo delle dieci pagine. Ero slegato, disgregato. Straziato a tal punto, che i pensieri prendevano il sopravvento totale. Mi conducevano in sentieri che non avevo mai voluto percorrere. Sentieri ignoti, i quali, non erano mai stati tra le mie scelte. Quando però è la vita a portartici, non hai esperienza, e la vita si rovina con una serie di passi falsi. Io pensavo a te, ma nel letto che era ai miei piedi, c’era lei. Io non avrei mai voluto, tenerti fuori dalla mia vita. Ma i diavoletti che ho nel cervello mi hanno detto che dovevo segarti in quattro pezzi e infilarti in una sacca da golf, portarti in un luogo isolato per poi sezionarti accuratamente, e mangiare ogni pezzo del tuo tessuto. In quei giorni che ho passato nel mio eremo solitario a Saint-Moritz, io ho sperimentato ogni tipo di manicaretto con le tue carni. Le tue interiora poi, le ho dedicate a studi sui gusti di ogni genere, con eccelsi risultati a volte, e disgustosi esperimenti fallimentari in altre. Ma uno chef del mio calibro non si potrà mai fermare di fronte a certe piccole inezie. Lo scettro del cuoco dell’anno sarà mio! Anche se il tremendo barone Rocheford è in agguato.

Il barone Rocheford è un uomo bieco e assennato. Si racconta che nel 1678 partecipò alla grandiosa battaglia di Port Royal che si tenne tra i pirati del terribile pirata Jason Hobsgold e la flotta inglese alla fonda nelle acuqe del porto. Fu davvero la prima vera Pearl Harbor, e in quel caso, non c’era ancora il capitalismo. Io che critico il capitalismo comunque ho due paia di Nike e bevo Coca Cola. Ma non è questo il punto. È la tipica frase che si dice quando ci colgono in fallo, quando ti beccano in flagrante in un discorso che tu non sei capace di raddrizzare. Soprattutto quando sei incoerente, e quando sei incoerente, so cazzi! Perché o fingi con te stesso, o fingi con gli altri, o peggio ancora, fingi con entrambi.

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