lunedì 25 giugno 2007

Angelo

Quella fottutissima mattina faceva un caldo che a stento riuscivo a fumare la mia Marlboro. Un mal di testa mi accompagnava dalle cinque di mattina. L'insonnia mi rapiva anche l'unica cosa bella che mi era rimasta.
Avevo sognato di allungare le mie labbra per raggiungere quelle carnose e giovani di una ragazza che mi stava guardando negli occhi. Bellissima, occhi neri e capelli ricci e corvini, uno sguardo dolce e indifeso come quello di una bambina dolcissima; ma poi gli operai che lavorano al palazzo di fronte al mio appartamento, hanno smorzato la passione dal mio inconscio con uno stronzissimo e rumoroso arnese da lavoro, e mi sono ritrovato con le labbra protese nel vuoto a baciare l'ennesima fottutissima donna immaginaria della mia vita.
Faceva un caldo infernale, le lenzuola erano una pozza fastidiosa e puzzolente di sudore. Mi sono alzato e sono rimasto per mezz'ora sotto la pioggia della doccia. Il malditesta mi accompagnava già, pulsava accanto all'occhio destro, continuamente, incessantemente le botte di dolore erano maledettamente costanti. Forse era colpa della mezza bottiglia di whiskey che mi ero scolato la sera prima. Comunque, lasciando perdere gli errori della notte precedente, stamattina avevo un lavoro da fare. Con quel caldo e quel malditesta sarebbe stata una cosa veramente seccante. Detesto lavorare d'estate, tra la calura e il resto, i miei lavori non erano mai puliti.
Apro il mio taccuino, controllo di nuovo quella foto. Un tipo anonimo, sulla trentina, una faccia da bravo ragazzo, come si sia infilato in quel giro malsano di malavitosi era un mistero. Da ventisei anni lavoravo con la feccia della malavita, e non avevo mai visto tante giacche e tante cravatte intorno a colli curati e facce sbarbate come in quegli ultimi anni. Forse stavo diventando troppo vecchio, forse, il mondo stava creando altri ruoli, e io in quel palcoscenico avrei potuto mettermi in platea al massimo a fare la fottuta maschera, o lo sfigato venditore di bibite. Al diavolo, c'erano i distributori automatici ormai. Ma non vi ingannerò, non sono un nostalgico, solo mi sta sul cazzo tutto quello che crea delle barriere tra le persone, se non ci fossero barriere io sarei disoccupato, e questo sarebbe un bene, sia per me che per le mie vittime.
Per quel lavoro mi avevano dato un sacco di soldi. Avrei potuto sistemarmi, e quando dico "sistemarmi" cari miei, potete stare certi che quello sarebbe stato l'ultimo lavoro della mia vita.
Alle dieci e quarantotto il mio uomo lascia l'ufficio, per andare a fare uno spuntino, torna in ufficio alle undici e dieci circa. Alle tredici va a pranzo e alle quattordici rientra, stacca definitivamente alle sedici. Un uomo preciso, quasi sempre sorridente. Stasera, dopo una settimana di pedinamento, lo seguo fino a casa.
Scendo dalla macchina, e mi avvicino a lui, gli chiedo se ha una sigaretta. Quello si gira e mi dice: - Dovrebbe smettere di fumare, potrebbe ucciderla. - Dentro di me rido: "stupido coglione!", lo ringrazio e me ne vado.
Ha una voce tranquilla, mi sorride e mi augura una buona serata. Come odio i sensi di colpa, quelli mi avrebbero rovinato la vita.
Sale su casa, abita al terzo piano, niente ascensore. Ho un mazzo di chiavi del suo appartamento di cui mi sono premunito, non dico come, perchè i segreti del mestiere non vanno mai svelati.
Mi accingo alla porta, sento rumori di piatti. Si sta preparando la cena. Che tristezza morire mentre si mangia, mi ha sempre dato l'idea di qualcosa di sbagliato. Aspetto un'ora, non voglio mandarlo al creatore senza l'ultimo pasto. Cazzo, io vorrei che con me facessero lo stesso. Niente rancore, amico, è solo lavoro, solo una stupida coincidenza, tu sei capitato sui miei binari e io sto per passare a centoottanta all'ora, niente rancore, sei solo un uomo che ha messo i piedi in una faccenda che non gli competeva. E questo lo sapeva.
Apro la porta di casa con l'eleganza di un gatto, mi faccio strada nel piccolo corridoio. Avanzo con in mano la mia preziosa collaboratrice, con il silenziatore ovviamente, non vorrei svegliare tutto il dannato palazzo. Odiavo i lavori col silenziatore, erano puliti, precisi, e il più delle volte riuscivano bene, ma il brivido che da il rumore del colpo era niente in confronto.
E' in salotto di fronte all'ultima partita di campionato. Niente da dire, dopo la cena una bella serata di fronte alla tv non era per niente male, una buona sera per morire penso, alla fine lo stronzetto per avere la coscienza sporca se la godeva la vita.
Questo mi rese le cose un po' più facili. Il senso di colpa sarebbe svanito, celato dal bonifico bancario che avrei ricevuto, mi viene da sorridere.
Mi avvicino piano, lo chiamo per nome, neanche un secondo per spaventarsi e appena si gira gli pianto una pallottola in fronte.
Niente sangue. Ho sempre preferito il piccolo calibro: non sporca e se hai la mano ferma è più efficace di un bazooka.
Lo metto sdraiato sul letto, lo copro con un lenzuolo. Lo so faccio un lavoro di merda, ma non sono uno schifoso che lascia un cadavere piazzato al centro del salone.
Chiamo la polizia e dico che ho sentito degli schiamazzi e delle urla nell'appartamento. Rimetto la pistola nella fondina e faccio per andarmene, quando sento delle chiavi che aprono la porta.
- Amore, sono tornata. -
Chi diavolo era?
Estraggo la pistola di nuovo, quell'imprevisto non ci voleva. E gli imprevisti in questo caso sono solo cadaveri in più del normale. E non mi piaceva mai.
Mi nascondo nel buio.
La ragazza con la voce da usignolo continua a chiamare il defunto ragazzo, che ormai giace chissà dove. Entra in salone, accende la luce e il colpo che sparo non è preciso stavolta, colpa del buio, ma colpa sopratutto del fatto che lei, la ragazza, aveva gli occhi neri, i capelli ricci, corvini, e uno sguardo dolce e indifeso come quello di una bambina. Il colpo arriva secco sul collo, che la fa rantolare un po' nel sangue qualche istante prima di morire.
La polizia arriva, io devo andare, non c'è tempo per un lenzuolo anche per lei. Le chiudo gli occhi, piango, ed esco velocemente.
Non mi sono sporcato, avevo i guanti, non ho lasciato nulla. Passo in rassegna ogni movimento, come ogni volta che capita un imprevisto. Cerco di pensare a tutto, per non pensare che quella creatura meravigliosa mi era venuta in sogno a cercare, a baciarmi. Quella creatura meravigliosa era un angelo venuto per avvertirmi, e io le avevo sparato.
Mi sentivo dannato, e stupido, un fallito meschino e dilaniato dai sensi di colpa. Torno a casa, e mi scolo l'altra mezza bottiglia di whiskey, mi butto sotto la doccia, ci resto mezz'ora e piango ripensando alla serata. Prendo la vecchia compagna di aventure, le svito il silenziatore, la pulisco per bene,la rimonto, le infilo il caricatore e la guardo un attimo nel suo unico occhio. Un occhio nero e lucido profondo come la porta per l'inferno.
Il colpo secco lo sentirono in tutto il palazzo e nel vicinato.
Sentirono tutti il colpo forte e potente della redenzione.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Sì...sì...sì...

OTTIMO RICHARD!